C’era un uomo ricco

Nella domenica XXVI del tempo ordinario leggiamo la seconda parte del cap.16 del Vangelo di Luca (Lc.16,19-31), tutto incentrato sull’uso dei beni da parte dei discepoli di Gesù. “Nessuno può servire due padroni: odierà uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà ad uno e disprezzerà l’altro”. Per Gesù è necessario fare una scelta radicale: chi sceglie Lui sarà in grado di usare i beni, non per se stesso ma nella condivisione, per dar vita ad una società fraterna, rimanendo con cuore libero capace di amare.

Così parla Gesù ai suoi discepoli e così continua a parlare Luca alla comunità cristiana, immersa nel mondo per il quale la logica continua ad essere l’opposto del Vangelo: l’interesse, il profitto, il benessere individuale. E continua a parlare alla comunità cristiana sempre a rischio di rimanere incerta tra le due logiche o di ridurre la radicalità della parola di Gesù alla semplice moralizzazione della logica del mondo: proprio perché la comunità cristiana è chiamata a vivere nel mondo, e non separata o contro il mondo, Luca la richiama con chiarezza alla necessità della radicalità della scelta che le rende possibile essere nel mondo, senza essere del mondo.

E con insistenza Luca si rivolge a chi, nella comunità, ha la responsabilità di guidarla: a loro in particolare è chiesto un cuore libero dall’attaccamento ai beni, un cuore che sceglie Lui, per essere in grado di usare i beni, ma non per se stessi, ma per il bene sommo, che è la comunione tra persone che sono fratelli e sorelle.

Così, dopo che Gesù ha parlato ai discepoli (Lc.16,1), Luca dice: “ascoltavano tutte queste cose i farisei prestigiosi ‘amanti del denaro’, che prendevano in giro Gesù”. Ma chi sono questi farisei? Sono presenti tra i discepoli di Gesù ad ascoltarlo e a deriderlo (sentendo Gesù, “storcono il naso, perché il loro amore del denaro li ha portati a diventare persone di prestigio”): Luca ormai parla alla sua comunità nella quale sono presenti questi nuovi farisei, diventati onorevoli perché ricchi.

A loro rivolge le dure parole di Gesù: “Voi vi autogiustificate (vi autoassolvete, vi autoaffermate giusti), davanti agli uomini. Dio conosce i vostri cuori: quello che per gli uomini ha maggior valore, davanti a Dio è cosa spregevole”.

E ancora una volta, nel contesto di questo discorso nel quale il problema centrale è l’uso dei beni, Gesù ci rimanda all’essenziale che illumina ogni problema e guida l’uomo nella sua vita: è l’esperienza di Dio. “Dio conosce i vostri cuori”: solo un “cuore” che si lascia conoscere, amare da Dio è in grado di discernere, scegliere nella libertà, come usare le cose nell’amore verso il mondo. Un cuore rivolto a se stesso, strumentalizza tutto, soldi, affetti, solo per darsi una apparente onorabilità: questo è possibile anche nella comunità cristiana.

È possibile usare i soldi per opere di carità per giustificare la ricerca della propria onorabilità: anche questo è idolatria raffinata. “Dio conosce i vostri cuori”: per Gesù l’essenziale è l’esperienza di Dio, per il quale ciò che conta per gli uomini non ha nessun valore.

“Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili. Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote…” (Lc.1,46-55): nel canto di Maria, Luca ha già anticipato la logica di Dio che capovolge quella umana.

“Un uomo era ricco…” (Lc.16,19ss.): per i “farisei” presenti nella comunità, Luca narra una parabola nella quale Gesù li richiama alla logica capovolgente di Dio, che abbassa i ricchi e innalza i poveri. È una parabola nella quale l’arte narrativa di Luca si manifesta interamente: egli è un abile descrittore di personaggi, di situazioni, di luoghi, attraverso i quali trasmette il suo messaggio.

Qui Luca dice: “Un uomo era ricco”: non ha nome ma è ricco, la sua ricchezza qualifica la sua umanità, ha un posto di onore nella società, vive la sua bella vita, mostrandola.

“Un povero di nome Lazzaro (“Dio viene in aiuto”)…”: è “povero” ma ha un nome. La sua umanità non è qualificata da ciò che possiede, dalle vesti con cui si maschera, la sua felicità non è ricercata nel fare festini: non ha niente, è un escluso, rifiutato, solo i cani leccano le sue piaghe. È “povero”, è “un uomo”: ha un nome.

Gesù sta parlando ai Farisei (quelli della comunità di Luca): ma che cosa è l’ “uomo”, l’uomo “vero”? È l’uomo “ricco” che osserva le leggi, “rispettabile”, mascherato nelle sue vesti di porpora e di lino finissimo, o è l’uomo povero, debole, non mascherato…? È l’uomo che con la propria ricchezza si autocostruisce o è l’uomo che sperimenta fin in fondo la propria impotente fragilità?

I Farisei (e noi?) pensano che l’uomo che vale sia quello che “riesce”, ritengono che Dio sia con l’uomo che osserva le leggi, che la ricchezza sia un premio con cui Dio ricompensa chi è fedele. E pensano che la povertà sia un castigo per l’uomo peccatore. Pensano a Dio come un freddo ragioniere che premia i buoni e castiga i cattivi: il ricco è “uno” buono e il povero è “uno” cattivo.
Ma Dio è veramente così? E quale l’uomo vero?

Continua la parabola: “Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo…Morì anche il ricco e fu sepolto”. Tutta la logica è sconvolta: Luca il narratore crea una storia sorprendente, inserendosi nella concezione giudaica dell’al di là, rivela la novità della logica del Dio di Gesù che dà il senso vero anche dell’uomo.

Il povero è innalzato e il ricco abbassato: Dio viene in aiuto (“Lazzaro”) al povero. Dio è l’Amore che è nell’uomo debole, che si abbassa in chi non si innalza, in chi non si fa il costruttore della propria vita.

Parlando dell’al di là, Luca, in realtà, parla ai suoi lettori per convincerli ad entrare nell’esperienza del Dio che ama gratuitamente l’uomo che non maschera la propria povertà.

Il Padre Abramo all’uomo “ricco” che lo implora perché mandi Lazzaro a portargli un goccio d’acqua dice: “Figlio, ricorda: tu hai già preso i tuoi beni nella tua vita, mentre Lazzaro i suoi mali”.

“Ricorda”: è importante “fare memoria” dei propri gesti, delle proprie scelte, tener vivo il senso delle proprie scelte che hanno conseguenze. “Tu hai preso i ‘tuoi’ beni nella ‘tua’ vita”: tu hai fatto di te stesso il padrone della tua vita. “Lazzaro i mali”: il povero vivendo la sua tragicità, non si è mascherato da santo, da potente, da felice, da ricco; ha lasciato, solo per il fatto di essere “povero” che il mistero dell’Amore di Dio lo avvolgesse. Chi è dunque l’uomo? È la creatura fragile che Dio ama come un figlio. E Dio è un Padre che viene in aiuto al figlio povero che non si veste da ricco.

E Gesù invita i “Farisei” presenti nella sua comunità all’ascolto di Mosè e dei Profeti, testimoni di un Dio che “ascolta il grido del suo popolo e discende per liberarlo”.

E con amarezza li richiama (richiama noi) a non lasciare inascoltata la voce di Colui che è risorto dai morti: Gesù, che si è fatto povero, è disceso sino alla morte di Croce, ha sperimentato fino in fondo il limite umano, è risuscitato perché il Padre non lo ha abbandonato, ma è stata la sua forza, la sua vita, il suo Amore.

Dio solo è la ricchezza dell’uomo debole: solo Dio, il suo Amore, è il bene dell’uomo. Gesù ne è il testimone fedele: abbiamo il coraggio di crederlo e di viverlo?

Venite alle nozze!

Dopo quella dei due figli e dei vignaioli omicidi, quella degli invitati alla festa di nozze (Matt.22,1-14), è la terza parabola con cui Gesù risponde ai capi del popolo, religiosi e civili, che contestano la sua autorità: è un crescendo nell’annuncio della novità della presenza del Regno dei cieli che attende la risposta responsabile di coloro ai quali è offerto di entrarvi. Con sempre maggiore intensità, Gesù annuncia che si tratta di credere l’Amore che Dio ha per il mondo, ma continua a scontrarsi con la logica della razionalità umana che preferisce credere in se stessa, chiudendosi nell’illusione della propria autosufficienza.

La parabola degli invitati si trova anche nel Vangelo di Luca 14,15-24: Matteo trasforma la “grande cena” di Luca, in “una festa di nozze” che un re ha preparato per suo figlio. La sua aggiunta dell’epilogo sull’abito nuziale, dà una sottolineatura particolare alla parabola. È interessante per noi, lettori attuali del Vangelo, notare la libertà con cui la comunità cristiana degli inizi ha saputo attualizzare la parola di Gesù: partendo da come lui l’ha pronunciata, la comunità l’ha letta alla luce della propria esperienza, mentre l’evangelista ha avvertito l’esigenza di precisarne ulteriormente il senso. In questo modo il Vangelo ci insegna ad ascoltare la Parola di Gesù come sempre viva, mai ripetitiva.

“Il Regno dei cieli è simile…”. Leggendo il Vangelo, oggi noi siamo sollecitati a sentirci immersi in un’esperienza, quella del Regno dei cieli, simile a quella suscitata da un re ricco e potente, che vuol fare una festa di nozze per il figlio ed è appassionatamente preoccupato di renderne tutti partecipi. La comunità di Matteo pensa alla storia di Israele nella quale è ancora fortemente radicata, fino al dramma recente della distruzione del Tempio di Gerusalemme: oggi, siamo noi invitati a sentirci i chiamati a partecipare alla festa di nozze. Siamo invitati ad “entrare nel Regno dei cieli” guardando al mondo come a una festa di nozze: Gesù vuole invitarci a scoprire quanto Dio ami il mondo e con quanta intensità desideri che la nostra vita sia come una partecipazione alla festa di nozze preparata per il suo figlio. Vuole che guardando a lui, uomo come noi, scopriamo la bellezza della vita del figlio di Dio che è offerta a tutti noi. Dio vuole soltanto donare, vuole convincerci che tutto è Amore, che la felicità è a nostra portata di mano: basta aprire il cuore, vedere, toccare, gustare l’Amore che lui ha per noi. L’invito è chiaro, ma quelli “non volevano” venire: è questione di “volontà”. All’offerta di un dono, l’uomo preferisce la propria volontà: non vede la bellezza di quanto gli è donato, pensa di poter essere il costruttore della propria felicità. “Venite alle nozze!”: illustrando lo splendore della festa ormai pronta e l’occasione da non perdere, l’invito diventa più intenso. La risposta, per disinteresse o per attaccamento al proprio modo di vedere, o per odio, è un rifiuto. Se la comunità di Matteo pensa alla propria esperienza: oggi, l’invito è rivolto a noi, chiamati a partecipare alla festa, per sentirci tutti, con lui, figli del Padre, fratelli tra di noi, per scoprire, gustare, vivere la bellezza di quanto ci è donato: ma noi crediamo al desiderio appassionato del Padre di renderci partecipi del suo Amore? Sappiamo guardare al mondo come una tavola imbandita a cui siamo invitati a sederci? Sappiamo sederci a mensa come fratelli? Noi crediamo l’Amore? In realtà rischiamo di vivere soli, chiusi nelle nostre paure e contese, nei nostri progetti, nella nostra supponenza, nell’illusione di saper costruire da soli un mondo migliore. “La festa è pronta, ma gli invitati non erano degni”: e noi? Possiamo gustare una festa e viviamo nell’angoscia. Credere l’Amore è l’invito che ci viene da Gesù. Ma l’Amore cos’è? Non è un sentimento vuoto: è vita, è forza. Rifiutare l’Amore è chiudersi alla vita, votarsi al fallimento. Ma “la festa rimane pronta”: l’invito continua, l’orizzonte si allarga. La dimensione universale della chiamata alla festa, è caratteristica del Vangelo di Matteo: “hanno raccolto tutti, buoni e cattivi, e la sala è riempita”. La distinzione tra “buoni e cattivi”, così cara ai dottori della legge, è superata dalla gratuità dell’Amore del Padre: “non sono i sani he hanno bisogno del medico…”. Ma allora perché Matteo ha aggiunto l’ultima parte, con la durezza della condanna di colui che è entrato senza l’abito nuziale? Nella comunità cristiana (ne è testimone anche S.Paolo) si è posta la domanda, viva più che mai oggi: ma se non c’è la legge, tutto è uguale? E la risposta è: c’è una “legge nuova”, l’Amore. Credere l’Amore è la risposta libera che l’uomo è chiamato a dare, dal profondo della propria povertà, all’invito del Padre. E’ la veste che l’amante dona alla persona amata, non è frutto della “propria bontà”: credere o non credere l’Amore è la sola differenza cristiana.

Dio dei vivi, amante della vita

Ci avviciniamo ormai al termine dell’anno liturgico e alla conclusione della lunga serie delle domeniche del tempo ordinario nelle quali abbiamo letto il Vangelo di Luca che, nella parte che lo distingue dai Vangeli di Marco e di Matteo, ci guida, al seguito di Gesù, nel viaggio verso Gerusalemme, dove avviene il suo “esodo”, la sua partenza verso il Padre. Nella domenica XXXII ci è proposto il brano di Lc. 20, 27-38: ormai siamo giunti a Gerusalemme, nel Tempio dove si concentra la attività di Gesù, il suo messaggio finale, il “discorso escatologico”. Luca descrive i capi dei sacerdoti e gli scribi che cercano di eliminare Gesù perché sono perplessi e diffidenti del suo insegnamento, ma ne sono impediti per l’entusiasmo del popolo per lui: così Luca prepara il suo lettore all’immagine positiva che darà del popolo nel racconto della Passione.

Il brano che oggi leggiamo (Lc 20,27-38), si presenta come una disputa scolastica tra le diverse tendenze del pensiero ebraico e forse ancora vive all’interno della comunità a cui Luca si rivolge, ma contiene un pensiero e un messaggio forte di Gesù per i suoi discepoli di ogni tempo. Si tratta di una disputa sulla risurrezione generata da una domanda di alcuni Sadducei: certamente la risposta di Gesù come è riportata da Luca, suppone la fede nella risurrezione di Gesù che è alla base della fede cristiana. Leggere questo brano del Vangelo, che, è bene sottolinearlo, presenta alcune difficoltà di interpretazione, in questa domenica, è occasione per ciascuno di noi per fermarci e chiederci che cosa pensiamo noi della risurrezione.

Dunque, dice il Vangelo, “gli si avvicinarono alcuni Sadducei i quali dicono che non c’è la risurrezione”. Questa è l’unica volta che Luca nomina i Sadducei nel Vangelo, che poi ritornano negli Atti degli Apostoli: si tratta, secondo Giuseppe Flavio, di una delle “scuole filosofiche” esistenti in seno al giudaismo, che riconosce autorità alla sola Scrittura e rifiuta la tradizione orale. Mentre i Farisei, se pure in modalità diverse, credono nella risurrezione, i Sadducei ritengono che l’al di là della morte di ogni persona umana sia assicurata dalla continuità e dalla sopravvivenza delle generazioni, unicamente attraverso il succedersi della procreazione per mezzo del matrimonio. Per questo per i Sadducei è strettamente necessario il matrimonio, perché solo attraverso questa via è assicurata la continua sopravvivenza dell’umanità, ed è in questa luce che essi spiegano la legge del levirato che essi attribuiscono a Mosè. I Sadducei quindi rivolgendosi a Gesù intendono, proprio fondandosi sull’autorità di Mosè, negare la risurrezione, deridendo coloro che la sostengono. Essi lo chiamano “Maestro”: avra’ il coraggio Gesù di contraddire Mosè? E con quale motivazione il “Maestro” potrà non schierarsi con gli “anti-dicenti” che c’è la risurrezione? La risposta di Gesù si svolge in due momenti: anzitutto dice il suo pensiero sulla risurrezione e poi fa riferimento all’autorità mosaica.

Dunque dice Gesù: “I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni di quel mondo e della risurrezione dei morti, non prendono né moglie né marito; infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio”. Gesù non rimane sul piano polemico dei suoi interlocutori ma espone il suo insegnamento con un colpo d’ala che lo libera dai condizionamenti con cui vorrebbero legarlo: e Gesù apre orizzonti nuovi per una vita che non è la continuazione della vita di “questo mondo”, ma è la novità di cui egli solo può parlare perché è la manifestazione della propria esperienza di Figlio di Dio. Per comprendere adeguatamente il senso della Parola rivelatrice di Gesù, occorrerebbe confrontarla con testi corrispondenti di S.Paolo e di S.Giovanni: la risurrezione non è la riproduzione al di là della morte della stessa vita generata “in questo mondo” mediante il matrimonio. Gesù parla di “quel mondo” che è per quelli che “ne sono giudicati degni”: il participio passivo indica una azione di Dio che giudica coloro che ne sono degni, e tutto il Vangelo ci ha detto che il modo di Dio di valutare capovolge quello della razionalità umana (“innalza i poveri e abbassa i potenti”). Gesù parla del mondo “della risurrezione dai morti”: è il mondo di una vita che non è quella assicurata dalla continuità della procreazione mediate il matrimonio, ma che nasce dalla “risurrezione dai morti”, cioè che oltrepassa la vita di “questo mondo” perché non è generata “da carne e da sangue” Chi la vive non può più morire, perché è come-angelo (cioè vive con Dio), è generato da una azione generante nuova: è figlio di Dio. Gesù parla della risurrezione come vita nuova, vita altra, vita dei figli di Dio: ci impressiona la molteplicità dei termini usati da Gesù per esprimere questa realtà nuova, segno della difficoltà di trovare un linguaggio adeguato per dire una realtà che va oltre quella normale di “questo mondo”. Ciò che va sottolineato, la rivelazione che viene da Gesù, è la chiara affermazione della risurrezione, come vita nuova, la vita dei figli di Dio. Ma Gesù non ne parla per togliere il velo del mistero di un al di là che deve rimanere tale: ne parla perché è un’esperienza che egli vive già nel presente e che propone a chi crede in lui. La parola di Gesù conduce dentro il mistero che ogni uomo vive dentro di sè: l’uomo nasce in “questo mondo”, ma non si esaurisce in esso. Seguendo Gesù, credendo in lui, l’uomo entra in “quel mondo” che è il mondo di Dio, e vi entra già adesso: la parola di Gesù ci introduce nella novità della vita che egli propone, una vita in continua tensione, tra “questo” e “quel” mondo, tra ciò che nasce “dalla carne” e ciò che nasce “dall’alto”, tra il “già” e il “non ancora”, tra “il segno” e “la realtà”, tra il “matrimonio” e la “verginità”, in attesa che “passi la figura di questo mondo” e appaia la realtà di “quel mondo” che rimane per sempre. La proposta di Gesù è di vivere intensamente “questo mondo” come il terreno nel quale è deposto il seme di “quel mondo” che è bellezza, gioia, luce, amore: Dio.

Ai Sadducei e a noi, Gesù ricorda l’esperienza di Mosè perché noi la riviviamo: Dio è il Dio dei vivi e non dei morti, Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, è il mio Dio. Dio è l’ “amante della vita”, Colui che ci ama: entrare in relazione con Lui, significa iniziare una vita che diventa sempre più intensa, quanto più si abbandona a lui e che diventa eterna quando è totalmente afferrata da lui.

La pietra del monaco

Un uomo uscì correndo dalla sua casa, alla vista di un monaco che attraversava il suo villaggio, lo afferrò per il collo della tonaca: “Dammela! Dammi la pietra”. Il monaco: “Di quale pietra stai parlando?”. E l’uomo: “Ieri notte Dio mi è apparso in sogno… un uomo passerà per il tuo villaggio a mezzogiorno domani. Se ti darà la pietra che ha nella sua sacca sarai l’uomo più ricco del mondo. Quindi dammi la pietra”. Il monaco rovistò nella sua sacca e ne estrasse un diamante enorme, il diamante più grande del mondo. Allora: “È questa la pietra che vuoi? È grossa come un pugno; l’ho trovata nella foresta; prendila, è tua!”. L’uomo gli strappò la pietra dalle mani e corse a casa. Quella notte però non riuscì a chiudere occhio. Al mattino, trovò dove il monaco dormiva sotto un albero frondoso, lo svegliò e gli disse: “Riprenditi la pietra, ma dammi la ricchezza che ti permette di dar via un diamante come questo”.

Cristo Re

Per noi, per tutta la Chiesa, oggi è festa di Cristo Re. È una festa dal titolo facile, ma dal contenuto, dottrinale e spirituale, difficile.

Difficile per la ambivalenza del titolo, che può riferirsi a questo mondo terreno e temporale, che invece il Signore riferì al regno dei cieli, cioè ad un ordine diverso e superiore, definito dal nuovo rapporto, da Lui instaurato, fra l’uomo e Dio, un ordine che ha il suo fondamento nell’interno delle coscienze, che si riflette, per illuminarlo e sostenerlo anche sul regno del mondo esteriore, e che avrà il suo epilogo glorioso e risolutivo nell’ultimo giorno, al di là della storia e del tempo presente.

Difficile, figli carissimi, anche perché la regalità comporta una sintesi; è principio, è centro, è vertice, è fonte, è legge, è termine. La regalità di Cristo è, nella sfera sua propria, tutto questo. E con caratteri suoi propri, dove i valori dello spirito, la verità e l’amore, la fede cioè e la carità, sono principii costituzionali, e dove l’azione misteriosa di Dio nella nostra vita, nella nostra storia, si fa così presente e così operante da penetrare e guidare e risolvere in sé tutta la nostra libera, ma debole e vacillante azione.

Difficile, diciamo, perché la regalità di Cristo è il disegno divino, è il mistero rivelato del Vangelo e della Chiesa che ne deriva. Ma Gesù vi ha tessuto Ia sua predicazione, che appunto è il messaggio sul regno dei cieli, e vi ha dato la sua passione come testimonianza suprema, condannato, come fu, quale Re del Popolo eletto.

Segno che bisogna insistere su questo concetto, se si vuole comprendere qualche cosa del piano divino della nostra salvezza, e che bisogna mettersi al seguito e al servizio del Re divino, se vogliamo essere uomini salvi e cristiani fedeli. Beato chi comprende. Beato chi dà alla propria vita il senso d’un’adesione a Cristo, alfa e omega della storia umana, e si fa apostolo del suo regno.

Ci aiuti Maria, la Madre del grande Re, la nostra celeste Regina.

Paolo VI, Angelus, 27 ottobre 1968 cfr. https://www.vatican.va/content/paul-vi/it/angelus/1968/documents/hf_p-vi_ang_19681027.html

Corpus Domini

Sono solo pochi giorni che abbiamo ripreso a celebrare la Messa alla presenza anche del popolo: durante il lockdown noi sacerdoti abbiamo assicurato la continuità del servizio divino, anche se i fedeli non potevano essere personalmente presenti alle celebrazioni. Abbiamo utilizzato la tv e internet per offrire comunque la possibilità, se non altro, di “vedere” e di “sentire” la Messa.
Oggi, festa del Corpus Domini, possiamo fermarci un momento a riflettere su questa esperienza, alla luce della riflessione sull’Eucaristia.

Se guardiamo indietro, questo tempo è stato una sorta di lunghissima Quaresima, che ha inghiottito anche il triduo pasquale. Non l’abbiamo celebrato: abbiamo seguito messe in tv, messe in streaming, del papa, del vescovo, del parroco… e magari intanto facevamo altro, girando per casa, mentre teologi, pastoralisti, moralisti, discutevano sul perché e sul percome di queste trasmissioni, chiedendosi se e come fossero delle vere celebrazioni, delle autentiche liturgie della Chiesa. Qualcuno le ha addirittura improvvidamente chiamate “cerimonie”: e non dico altro.

Ci sono state polemiche, prima per la chiusura, poi per la riapertura, e sulla comunione in mano piuttosto che in bocca… Chissà se tutti quelli che hanno partecipato a queste polemiche ora sono tra i frequentatori più assidui della Messa ritrovata…

Ecco: mi verrebbe da dire, niente di nuovo sotto il sole. Un diluvio di parole ci ha sommerso (le parole non costano nulla e fruttano sempre molto, a chi le sa utilizzare bene), e se non cerchiamo di arginarlo, questo diluvio, corriamo il rischio di esserne sommersi. Forse invece è l’occasione propizia per rimettere in luce alcuni aspetti fondamentali del nostro essere cristiani e cattolici.

San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi (giovane e vivace comunità, con qualche problema), dice che il calice e il pane sono il segno dell’unità della comunità: mettere in comune il pane e il calice è mettere in comune il corpo e il sangue del Signore, e quindi diventare in lui un solo corpo e un solo spirito. E questo, dice poco dopo ancora san Paolo, è quello che lui ha trasmesso così come lo ha ricevuto: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito… e aggiunge: ogni volta che mangiate questo pane e bevete questo calice, annunciate la morte del Signore, fino a quando egli verrà.

Nel sacramento del Corpo e del Sangue del Signore è quindi come racchiuso, raccolto e significato tutto l’essere della Chiesa. In quel sacramento noi vediamo rispecchiato ciò che siamo e ciò che siamo chiamati a diventare, come singoli e come comunità.
I martiri di Abitene (304), arrestati durante la celebrazione in casa di uno di loro, dichiarano al proconsole Anulino: “sine dominico non pòssumus”. Senza il “dominicum”: che cosa sarà mai? Penso che una traduzione del senso della parola sia molto ampia. “Dominicum” è il sacramento del Signore, che si celebra nella cena del Signore, che si riunisce nel giorno del Signore e nella casa del Signore, fino a quando il Signore tornerà.

Andare a Messa, fare la comunione… non è solo un gesto religioso, una cerimonia. È dichiarare chi siamo e chi vogliamo essere. È riconoscere che abbiamo fame di Gesù Cristo, perché solo chi mangia la sua carne e bene il suo sangue ha la vita eterna, la vita piena. La presenza reale di Gesù Cristo nel pane e nel vino che diventano il suo corpo e il suo sangue nell’Eucaristia dà senso e significato alla nostra esistenza. Solo se lui è presente, noi possiamo essere presenti a noi stessi!

Certo: la carne è, nel linguaggio della Bibbia, anche il segno della debolezza. Cristo si è incarnato, cioè è entrato nella povertà e nella debolezza della nostra umanità, e continua ad essere presente in questa povera Chiesa, piena di peccatori, di credenti fiacchi e infedeli. Così come il pane è un segno fragile, piccolo. Ci vuole coraggio per riconoscere che Dio ha scelto di abitare in mezzo a noi, ma ce ne vuole di più per scegliere, come Dio ha fatto e continua a fare, di abitare in mezzo a questa umanità; di consegnarsi nelle mani di un povero prete… La Chiesa è debole. Solo Gesù Cristo è la sua forza.

E anche il sangue: nella Bibbia il sangue è la sede della vita. Gesù ci dà la sua stessa vita. E ci dice: “Fate questo in memoria di me”. Non credo che intendesse dire: “fate delle solenni celebrazioni, usate tanto incenso, cantate canti meravigliosi, costruite chiese spettacolari…”. Certo non l’ha proibito. Ma forse voleva dire prima di tutto: siate pronti anche voi a dare la vostra vita, come io sto facendo, se volete davvero mantener viva la mia memoria e la mia presenza in mezzo a voi. Solo io sono la vostra forza. Senza di me non potete far nulla.

Allora non è questione di riti, di lingue o di architetture. È questione di fede: o siamo disponibili a consegnare noi stessi, la nostra vita a Dio Padre e a Gesù Cristo suo Figlio, o non lo siamo. Non siamo nulla. Sine dominico non pòssumus. Si arriva sempre lì. Si riparte solo da lì.

25 Aprile 2020

La libertà non è solo un concetto astratto, un’idea. La libertà è il dono più grande che Dio ci ha dato nel momento in cui ci ha creato. Come diceva il catechismo d’una volta, Egli «ci ha creato per amarlo e servirlo in questa vita»: ma senza libertà non c’è amore, perché nessuno può obbligarci ad amare, e non c’è servizio, ma schiavitù. Per questo la libertà è preziosa, ed è doveroso ricordare e onorare coloro che hanno lottato per la nostra libertà, e essere pronti a seguirne le orme. Non c’è libertà per la persona se la comunità non è libera, se non può esprimersi liberamente, se non può scegliere liberamente il proprio destino. Le strutture della vita politica hanno valore solo nella misura in cui sono al servizio della libertà delle persone e della comunità. Per questo qualcuno ha detto che la politica è la forma più alta della carità cristiana. La libertà è un dono di Dio, ed è così assolutamente necessaria e indispensabile, che mai e poi mai la consegnerò al “capo”: poiché è dono donato da Dio a me personalmente, io ne sono il primo responsabile, per me stesso e per la mia comunità. E ben venga quel giorno dell’anno che mi rinfresca la memoria su questo dono. Anche se è una festa laica, il 25 aprile a me parla lo stesso di Dio, e di me, e di noi tutti.

Pensare il Natale

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Paolo VI, Omelia alla Messa dell’aurora, Natale 1971, parrocchia di Santa Maria Regina Mundi a Torre Spaccata, Roma.

 

[…] Sono venuto, vi confiderò una cosa, anche per consolare me stesso, cioè per fare un Natale bello; voglio dire che anche il Papa deve fare un buon Natale e il mio Natale più bello è quando posso essere insieme a quelli che il Signore mi ha dato per fratelli e per figli. Essere insieme nella mia famiglia spirituale: voi siete una parte di questa famiglia, avete una bella chiesa nuova. Non è ancora del tutta finita ma indica già, anche qui, uno sforzo per fare le cose nuove, proporzionate ai bisogni e tutto questo per me è una grande, una grande consolazione.

Voi forse immaginate che il Papa sia l’uomo più felice di questa terra? Non è vero: beh, «felice come un Papa» si dice. Se sapeste! Perché? Ma perché tutti i dolori di questo mondo, tutte le necessità, le guerre, le controversie fra gli uomini, e soprattutto il vedere tanti che sono lontani dal Signore, che tanti lo combattono, lo negano, lo offendono, e tutto questo viene a finire nel nostro cuore.

E allora trovare una comunità come la vostra: migliaia di fedeli, di gente buona, di gente che spera e crede nel Signore, per me è una grandissima gioia, è una grandissima consolazione e perciò non siete voi che dovete ringraziare me di questa visita, ma sono io che debbo ringraziare voi per avermi accolto questa mattina per augurare a tutti proprio con il cuore aperto l’augurio di buon Natale … di buon Natale.

È qui che si incentra la ragione precisa per la quale io sono venuto fra voi: per celebrare il Natale. Io vorrei avere qui alcuni ragazzi del catechismo per sentire da loro se sanno che cosa è il Natale. Beh, sì che lo sanno: c’è qui un bel presepio, sanno subito che Natale è la festa che commemora la nascita di Gesù, e fino a qui ci arriviamo tutti, anche i bambini del catechismo, i più piccoli possono dire: «Oggi è Natale, è venuto Gesù Bambino».

Ma se io vado avanti con le domande: «Ma chi era Gesù Bambino?», «Gesù bambino è il figliolo della Madonna, è il figlio di Maria». Ed è tutto? Ecco, la grande cosa che dobbiamo avere presente nell’anima, facciamo uno sforzo, un po’, non dico per capire, ma almeno per farvi attenzione: Gesù, quel Gesù che vediamo nel presepio, quel bambino che vagisce lì, che non ha nessuna forza, nessuna espressione di sé, proprio perché è un bambino appena nato: quel Gesù è Figlio di Dio!

Da dove viene? Ma viene dal cielo, dove, lo diremo adesso, fra poco cantando il Credo: descendit de caelis, «è disceso dal cielo», ha questa prerogativa, questa singolarità unica, misteriosa e immensa, che racchiude in sé due figliolanze: è Figlio di Maria e quindi è fratello nostro, è uomo, ed è figlio di Dio, è figlio di Dio! Viene dal cielo, in lui vive la divinità.

Colui che ha creato il cielo e la terra, colui che è sempre stato e sempre sarà, colui che è la ragione, il principio dell’essere di tutte le cose, della nostra vita, della nostra esistenza, colui che conosce tutto, che vede nei nostri pensieri, colui che è presente a noi più che noi stessi, quello che si chiama Figlio di Dio, è venuto a farsi insieme figlio dell’uomo e allora la meraviglia deve essere la caratteristica di questa festività: siamo meravigliati, siamo ammirati, siamo sorpresi, siamo incantati per questo fatto che Dio si è fatto uomo, e che è in mezzo a noi.

Tenetelo bene a mente, perché questo è quello che io vi volevo dire venendo fra voi.

Il Natale è la visita fatta, non dal Papa che viene in mezzo a noi, non è che un simbolo questo, non è che un segno. È la visita, è la venuta di Cristo tra noi e Cristo è il Figlio di Dio fatto uomo. È la discesa di Dio in mezzo a noi. Come è lontano Iddio, cioè come è misterioso, come è inaccessibile, come è incomprensibile. Tanta gente non ci crede, perché? Ma perché non lo vede con gli occhi, perché non lo sente, perché non capisce, perché comprende una cosa: che se c’è Dio, Dio è un mistero senza confini e viene da questo mistero senza confini, da questo Dio nella profondità del tempo e dello spazio.

Avete mai guardato il cielo? Avete mai pensato ai secoli che sono passati? Tutti gli esperimenti recenti di questi astronauti che vanno alla Luna ci hanno almeno abituati a guardare un po’ di più la volta stellata che sta sopra di noi. E pensare a queste distanze immense, a questi secoli senza numero, che segnano l’età dell’universo e quindi il Dio di questo universo. Ebbene il Dio di queste profondità, il Dio infinito, il Dio che sta nei cieli. «Padre nostro che sei nei cieli», che sei in questo tuo … in questo immenso, immenso mistero; questo Dio che è inafferrabile ai nostri occhi, e così poco pensabile anche ai nostri cervelli, questo Dio vero.

Lui è venuto in mezzo a noi e per farsi conoscere, per farsi direi afferrare da noi si è fatto nostro fratello, si è fatto uno di noi, si è rivestito di carne umana, si è fatto uomo, per venire proprio a essere nostro amico, nostro collega, nostro compagno. Per darci confidenza!

Dio avrebbe potuto venire vestito di gloria, di splendore, di luce, di potenza, a farci paura, a farci sbarrare gli occhi dalla meraviglia. No, no! È venuto come il più piccolo degli esseri, il più fragile, il più debole. Perché questo? Ma perché nessuno avesse vergogna ad avvicinarlo, perché nessuno avesse timore, perché tutti lo potessero proprio avere vicino, andargli vicino, non avere più nessuna distanza fra noi e lui.

C’è stato da parte di Dio uno sforzo di inabissarsi, di sprofondarsi dentro di noi, perché ciascuno, dico ciascuno di voi, possa dargli del tu, possa avere confidenza, possa avvicinarlo, possa sentirsi da lui pensato, da lui amato… da lui amato: guardate che questa è una grande parola! Se voi capite questo, se voi ricordate questo che vi sto dicendo, voi avete capito tutto il Cristianesimo.

Che cosa è il Cristianesimo? Che cos’è questa nostra religione che ci fa costruire queste case, che ci organizza in parrocchie, che ci fa una famiglia sola, che ci fa diventare Chiesa sua? Che cosa è? È l’amore di Dio per noi. La capite questa parola: Dio ci ama, dilexit nos, ci ha voluto bene ancora prima che nascessimo; ha riconosciuto le nostre cose, e ha avuto un occhio, ha avuto un raggio di bontà e si è fermato sopra ciascuno di noi.

Mi dite chi di voi può dire: «Io non sono amato da Dio». Un malato? Ma se il Signore è venuto per quelli che soffrono. Un bambino? Ma se si è fatto bambino. Una povera donna di famiglia? Ma se è venuto anche lui per vivere in questa nostra famiglia umana. Un povero? Ma se ha voluto essere anche lui un povero. Un operaio? Ma se è voluto essere lui un povero falegname in un piccolissimo paese, Nazareth, dove ha passato trent’anni della sua vita, la maggior parte, per essere nostro compagno, per condividere con noi questa fatica della esistenza umana.

Gesù ha voluto venire tra di noi — Dio fatto uomo — perché comprendessimo il suo linguaggio, la sua parola divina, ma pronunciata non nel linguaggio misterioso con cui parla agli angeli e con cui parla nel silenzio degli spazi e dei secoli. Ha voluto assumere le nostra labbra per farsi capire e diventare… Come lo chiamiamo Gesù di solito? Maestro! È venuto per parlarci, per effondere la sua scienza, la sua sapienza. E come? Chissà che parole difficili che ha detto.

Ma no! Sono parole fatte apposta per i nostri poveri cervelli, per la nostra povera intelligenza, ma sono sempre parole divine, immense, che scoppiano quando noi le riceviamo nella nostra anima, tanto sono grandi e ha detto il suo grande messaggio che è come un programma di tutto il Vangelo: «Beati voi poveri, perché di voi è il mio regno, beati voi che piangete e soffrite perché io sono venuto a consolarvi, beati voi che amate e soffrite per la giustizia, perché io vi sfamerò, vi darò questa giustizia, e beati voi puri di cuore perché voi vedrete Dio, avrete la simpatia e l’intuizione di che cosa sono le cose divine».

Questo è il linguaggio che ha usato il Signore e si è fatto quindi maestro, senza sedere sulla cattedra, ma in mezzo al popolo, seduto per terra, passeggiando con i suoi discepoli.

E poi? Tutto qui? Guardate: è venuto Gesù, è venuto per dare la sua vita per noi. Non capiremo mai abbastanza Nostro Signore Gesù Cristo, se non comprenderemo questa sua intenzione, questo destino che segna davvero il perimetro della sua vita. Gesù è venuto per morire, ecco, è venuto per salvarci.

Se uno di voi fosse stato salvato da un incidente che, ahimè, succede spesso sulla strada, avreste gratitudine per quel coraggioso che si è esposto al pericolo per salvare voi?

Avete sentito la storia di quello che abbiamo beatificato qualche settimana fa, padre Kolbe? Forse sì. Però fatevela raccontare lo stesso, perché è tanto bella: un religioso francescano polacco, molto bravo, che ha fatto tanto bene parlare di sé per le opere grandi, riguardo la stampa specialmente, viene preso dai tedeschi e messo in un campo di concentramento.

Un prigioniero fugge, non si trova dove sia questo, e allora — come era metodo di questa inumana gente — il sistema prevede: «Noi ne uccideremo dieci, per vendicarci di questo che è scappato». Ne hanno trovati nove. Il decimo era un padre di famiglia, che io ho veduto, sapete. Quando ho fatto la beatificazione in San Pietro lui c’era. «Sono stato io salvato da Massimiliano Kolbe».

Perché? Perché questo prigioniero è uscito dalle file e si è presentato all’ufficiale e gli ha detto: «Questo è un povero padre di famiglia, lo lasci andare, prenda me», e hanno preso lui. Ed è morto per salvare questo polacco: è un gesto eroico, gratuito, spontaneo, senza nessuna gloria, senza nessuna ricompensa. Ebbene è morto per salvare questo padre di famiglia e Gesù è morto per salvare ciascuno di noi: Diléxit nos, et trádidit semetípsum pro nobis. Ha dato se stesso per noi.

Io vorrei che vi restasse nel cuore, per ricordo di questo Natale, proprio questo pensiero. Se siamo stati amati da Cristo, da Dio in Cristo che dobbiamo fare? Rispondete voi. È una cosa che sembra semplice, ma comprende tutta la nostra vita: dobbiamo dare anche noi. Se è così ricco per noi, se è così buono con noi, se è stato così generoso con noi, se ha dato la sua vita per noi, allora gli vorrò bene, mi guarderò anch’io di volergli bene, mi sentirò cristiano, cioè legato dalla gratitudine, da riconoscenza, da amore a questo Gesù che ha dato la sua vita per me.

Ed è tutto. Quelli che rispondono a questo amore sono cristiani.

E avviene un secondo fatto. Se davvero siamo stati tutti amati in Gesù Cristo eccoci qua! Ci troviamo insieme, si produce una comunità, si produce una comunità, si produce una simultaneità, si produce un corpus, si produce una società: come si chiama? Si chiama Chiesa. Siamo noi la Chiesa. Noi che siamo i salvati di Cristo.

Quindi due conseguenze da tutta questa meditazione.

Primo: bisogna che davvero comprendiamo meglio, non essere distratti. Non siamo gente che dimentica e non siamo degli ingrati, perché la cosa più grave, più generale della nostra povera umanità è questa, di non avere la gratitudine, quanta dovrebbe avere per Dio che così ci ha amati. E amare Gesù vuol dire pregarlo, vuol dire venire in chiesa, vuol dire davvero essere religiosi, per via di amore.

Tanti vedono nella religione una cosa che opprime, una cosa difficile, una cosa incomprensibile, una cosa noiosa: no! La religione, l’essere a contatto con Cristo e con Dio è una cosa che ci riempie di felicità, di gioia. Perché? Perché è l’amore.

Il primo, il grande comandamento che il Signore ci ha lasciato è questo: ama, ama Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e tutte le tue forze. Anzi ha detto una parola che sembra, a me fa sempre tanta impressione e che anche a voi certo la farà: se ci pensate: «Amatevi». Come? Quel come che fa cascare le braccia: «Come io vi ho amato». Ma come è possibile amare come il Signore ci ha amato?

Dov’è il nostro piccolo cuore, lui che ha il cuore che comprende tutto il mondo, lui che ci ha dato questo saggio di generosità, che è infinita, questa donazione eroica di sé. Ma posso io amare in questa misura?

La misura no, ma l’esempio sì: come Signore tu hai amato me, io cercherò di amare te, la mia vita sarà tesa in questo desiderio di rispondenza, in questo desiderio di dialogo, di incontro, di amore con te. Voi sapete che cosa è l’amore, questo sentimento fondamentale della nostra vita verso Cristo e verso Dio. Siete cristiani che sarete salvati.

E in secondo luogo su questo «amate ancora come io ho amato», Gesù ha amato tutti gli uomini, Gesù non ha detto di no a nessuno. Gesù non ha avuto odio nemmeno per colui che lo ha tradito, Giuda. Ha udito parole amare di condanna e quando Giuda col bacio, con la profanazione, con la ipocrisia più fiera e più crudele, lo ha tradito, Gesù che cosa ha detto? «Amico, amico, con un bacio tradisci il figlio dell’uomo», cioè Lui. Vedete chi è Gesù: lo conoscete adesso questo cuore di Cristo? Ebbene noi dovremmo imitare il cuore del Signore, cioè essere capaci anche noi di amare tutti.

Vorrei fare delle domande e poi finisco. Per celebrate il Natale: avete fatto qualche opera buona? Avete perdonato a qualcheduno? Avete pregato per qualcheduno che ne ha bisogno? Avete detto una buona parola per consolare qualcuno? Avete dato un po’ di gioia a qualche bambino, a qualche parente o a qualche persona? Avete cercato di effondere e di trovare in fondo al vostro cuore un po’ di calore, un po’ di dolcezza da dare intorno a voi? Avete fatto un atto di amore per questa vostra comunità, questa nostra società spirituale, che è la parrocchia? Beh, fatelo con me adesso! Noi celebreremo la Messa proprio per questa parrocchia, perché diventi davvero una famiglia in Cristo, perché l’amore di Cristo regni, trionfi nella vostra comunità parrocchiale.

L’amore deve essere il sole che illumina la nostra vita, il sole che scende e che dirige il nostro amore dal senso verticale al senso orizzontale: amiamo Dio e amiamo il prossimo.

Se abbiamo capito questa chiave, questa sintesi del Cristianesimo, allora possiamo andare vicino al presepio, chiudere gli occhi e pensare a questo bambino che è venuto per essere il nostro Salvatore.

 

Fonte: http://ilsismografo.blogspot.it/2014/12/vaticano-i-natali-di-montini.html